“Accettare la paura è un modo per restare vivi”: gli Elephant Brain si raccontano con Almeno per ora

INTERVISTENUOVI TALENTI

Gabriele Lobascio

10/20/20252 min read

Con Almeno per ora, gli Elephant Brain tornano con un disco che accoglie la fragilità e la trasforma in resistenza.
Non c’è fuga né finzione, ma un dialogo sincero con la paura, la perdita e la quotidianità.
Nel nuovo lavoro, la band sceglie di non nascondersi dietro la rabbia, ma di scavare dentro le crepe, di restare dove fa male — perché solo lì, forse, ci si sente davvero vivi.

INTERVISTA

“Almeno per ora” sembra un disco che accetta la paura senza volerla superare. Vi siete mai detti che, forse, restare dentro quella paura è anche un modo per sentirsi vivi?

Sì, certo. Questo vale soprattutto quando si fa arte in generale, e la musica in quanto forma d’espressione artistica non ne è esente. C’è sempre un po’ quell’idea che superando la paura, la tristezza, la preoccupazione e tutte quelle sensazioni che a rigor di logica chiameremmo negative non si riesca più a fare arte, che è appunto un modo per resistere e per sentirsi vivi. Almeno per ora è un disco in cui accettiamo la paura come intrinseca nostra e di tutti, e cerchiamo di darle un nome diverso: istinto di sopravvivenza. Solo così si può accettare la paura, riconoscerla e prendere tutto il buono che ne viene.

In “Impareremo a perdere” c’è un senso di resa lucida e consapevole. Quando avete capito che crescere significa anche imparare a lasciare andare?

Non c’è un vero e proprio momento, è un percorso costante, e non siamo nemmeno sicuri di averlo veramente capito. E infatti siamo ancora qua, ad alternare la nostra quotidianità ordinaria con la straordinarietà del fare musica – una cosa di certo non scontata.

“Le prime luci” e “Una casa in cui tornare” mostrano una parte più fragile, quasi intima. È stato difficile aprirvi così tanto dopo anni di suoni rabbiosi e disillusione?

Ne avevamo bisogno. Non ti neghiamo che nel lungo percorso che ha portato alla registrazione di questo disco ci sono stati molti momenti cupi, sia personali che come band, in cui non riuscivamo a cavare un proverbiale ragno dal buco, in cui ci sentivamo lontanissimi da una meta che volevamo raggiungere ma che non riuscivamo neanche ad intravedere. E non parliamo necessariamente della musica, ma anche delle nostre vite quotidiane. Alla fine ci siamo semplicemente detti che tutta questa fragilità, questo esistere qui ed ora in mezzo ad un mare di merda esterno, era ciò che volevamo raccontare.

L’ultima frase dell’album — “fa ancora paura” — suona come un punto sospeso. Cosa vi spaventa oggi, e cosa invece vi tiene ancora ancorati alla musica, nonostante tutto?

Per noi fare musica, ma anche ascoltarla, è un modo di resistere e di aiutare a resistere, è un po’ fare la nostra parte. Ci fa paura un sacco di roba in realtà, ci fa paura che tutto questo possa finire da un momento all’altro ma ci fa paura quello che fa paura a tutti e tutte in questo mondo e che abbiamo tutte e tutti sotto gli occhi. Ci fa paura che non ci sia una vera e propria cura.