
Alessandro Ragazzo e il diario sonoro di “Tutte le nostre città”
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4/15/20252 min read


“Tutte le nostre città” non è solo un album, è un viaggio dentro e fuori di sé. Un disco che somiglia a un diario onirico, fatto di brani che sembrano pagine scritte tra ricordi e visioni future, tra realtà e sogno.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Alessandro Ragazzo, cantautore che con questo primo lavoro ci ha conquistato con il suo mondo fragile, poetico e autentico.
Ne è venuta fuori una chiacchierata intensa, come le sue canzoni: si parla di vulnerabilità, di cinema, di caos interiore e di tutto ciò che – alla fine – ci tiene vivi.
“Tutte le nostre città” sembra un diario onirico, sospeso tra storie, sogni e luoghi interiori. C’è un brano dell’album che senti particolarmente tuo, come se parlasse direttamente a te stesso?
Ti direi che Non saremo felici mai è il brano che sento più vicino, sia musicalmente che a livello testuale.
È come se racchiudesse il mio modo di vedere il mondo, in bilico tra disincanto e speranza.
Mi considero un fatalista: credo che la società, per usare un eufemismo, non stia attraversando il suo momento migliore, eppure, sono convinto che, attraverso le relazioni umane e l’empatia, si possa rendere la vita un po’ meno triste e faticosa.
Nel disco affronti temi profondi come la dipendenza, le relazioni fragili e la nostalgia. Quanto ti espone, emotivamente, scrivere canzoni così intime?
Credo profondamente nel valore di dire ciò che si prova, di raccontarsi per come si è, senza filtri.
Per tanto tempo ho avuto difficoltà ad aprirmi, a esprimere quello che sentivo davvero. Ma nell’ultimo periodo qualcosa è cambiato, ho cominciato a capire quanto sia importante lasciar andare il giudizio — su me stesso e sugli altri.
Scrivere canzoni così personali comporta inevitabilmente un’esposizione emotiva forte, ma quando smetti di giudicarti, quella vulnerabilità non fa più paura, anzi.
Il tuo immaginario visivo e sonoro ha una forte impronta cinematografica. Se il disco diventasse un film, che tono avrebbe? Drammatico, romantico, surreale...?
Credo sarebbe un film ibrido, emotivo ma spiazzante e tagliente.
Un mix tra Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, con il suo sguardo metanarrativo e struggente, e Harry a pezzi di Woody Allen, che alterna ironia cinica e malinconia profonda.
Ci metterei anche il caos esistenziale di Fight Club, la nostalgia magica de La grande bellezza di Sorrentino, la crudezza di Trainspotting e l’onirismo inquieto di Mulholland Drive di David Lynch.
“Non saremo felici mai”, “Sogni”, “Il rito delle ombre”... i titoli raccontano già un mondo fragile e poetico. Scrivere ti aiuta di più a comprenderti o a lasciarti andare?
Entrambe le cose, credo.
Scrivere mi aiuta a mettere a fuoco ciò che penso di me stesso, degli altri e del mondo che mi circonda.
È un modo per ordinare il caos interiore e per dare un nome alle emozioni che spesso restano sospese, ma è anche una fuga, un modo per alleggerire, per lasciare andare il peso delle cose e abitare – almeno per un po’ – un luogo diverso, dove tutto è possibile.
Scrivere è, in fondo, un atto di resistenza e di liberazione.