Gli Zen Circus sono “la voce che ti sbatte Il Male in faccia”
INTERVISTE
Eleonora Freguglia
10/7/20254 min read


Roma accoglie glI Zen Circus in una cornice di rivolta che fa sentire tutto il suo calore in sostegno per la causa palestinese. Nella Capitale per l’in-store del loro nuovo disco “Il Male”, uscito il 25 settembre, gli Zen ci hanno dedicato qualche minuto del loro tempo per una discussione filosofica sul concetto di male e sull’origine dell’album.
Da cosa è scaturita l’esigenza di parlare del “male” sotto tutti i suoi aspetti?
Appino:
Il Male è un disco che si è autoproclamato. Semplicemente scrivevamo delle canzoni, lavoravamo, e a un certo punto abbiamo notato che in più canzoni la parola “male” ritornava, ritornava sempre. Come raramente ci è successo in altri dischi del passato, sembrava che le canzoni ci dicessero “noi facciamo parte di un disco che si chiama Il Male”. Da lì è andata in discesa la questione finché non ci siamo trovati con un disco in cui ogni canzone parlava di male, che può avere mille accezioni: nel corso del disco si parte dall’introduzione che è la canzone Il Male, che è un po’ il tema della questione, fino a parlare di vari mali, come la solitudine, il senso di inadeguatezza, fino poi ad arrivare alla conclusione in cui lo diciamo a chiare lettere che “il male siamo noi”, nel senso che è una parte integrante della vita umana.
Negli ultimi anni avete sempre unito ironia, rabbia e critica sociale. Ne “Il Male” sembra esserci meno ironia e più introspezione: riflette il momento storico che stiamo vivendo?
Karim:
L’ironia è il cardine, soprattutto l’autoironia e la mancanza di certezze, sono il leitmotiv degli Zen. L’ironia volendo c’è, in modo quasi paradossale, in tutta l’estetica del disco, a partire dalla copertina. Sicuramente in questo disco c’è una cosa che è il punto cardine del cantautorato: mettersi delle maschere per descrivere le situazioni, che era tipico del cantautorato italiano e non solo. Sicuramente l’autoironia c’è sempre, magari più nella forma e meno in quel tono scanzonato che può esserci in altri album degli Zen.
È chiaro che la definizione di “male” cambia di persona in persona, sebbene oggi abbiamo inevitabilmente davanti agli occhi delle inequivocabili manifestazioni di male. Ma voi, quale interpretazione di male vorreste che il pubblico vedesse in questo disco? Nasce con un intento di shockare o di stimolare alla riflessione?
Ufo:
In questo lavoro volevamo sgombrare l’idea di un male metafisico, di un male che cala da chissà dove, che è qualcosa di esterno. Sul male c’è un grosso discorso di rimosso, di rimozione in atto dagli anni Ottanta, già prima dei social che sono la quintessenza della rimozione del male: c’è sempre l’immagine performativa e molto bella della persona. La rimozione del male è in atto da decenni e si concretizza maggiormente adesso. Pensiamo al tipo di società che continua a dare consigli di qualsiasi genere, in cui si allontana il male in ogni modo possibile. Nel disco si cerca anche di togliere questa dimensione metafisica del male come se fosse una cosa chissà dove, perché poi facendo così poi il male si divora il mondo, che è quello che stiamo vedendo oggi, diventa come gli occhi di uno squalo pronto a divorare tutto, basta guarda quello che sta succedendo.
Il disco è anche un’operazione di maieutica, quindi cerca di dare domande e non risposte.
Quindi “Il Male” è fatto per smettere di evitare il male, di nasconderlo, di negarlo?
Ufo:
È esattamente il punto del disco.
L’arte, la musica, può guarire dal male o può solo raccontarlo? Considerando i vostri discorsi, io risponderei che è fatta per raccontarlo affinché si possa renderlo evidente e spogliarlo dalla sua connotazione esclusivamente malvagia e negativa.
Appino:
Esattamente. Il famoso “non tutti i mali vengono per nuocere”, no? Non solo. Noi siamo felici che esistano le canzoni “consolatorie”, che uno ascolta per dimenticarsi i mali della vita, è giusto che esistano e ne siamo anche fan. Però ci siamo resi conto negli anni che il nostro ruolo è un po’ diverso, è una questione anche di indole, ci viene bene essere provocatori, essere rompiscatole, perché è in parte è quello che ci tiene attaccati alla musica. Noi siamo una voce, una voce di tante, che il male cerca di sbattertelo in faccia affinché poi possa fare il giro contrario. Nei tour, nelle presentazioni ci arrivano migliaia di persone la cui vita è stata cambiata da una canzone che mai avremmo pensato che avrebbe potuto aiutare qualcuno e che invece l’ha fatto. Quindi evidentemente c’è bisogno di non sentirsi soli.
Ti faccio un esempio. Io ho la psoriasi, una malattia della pelle cronica. Effettivamente se non ne parli, ti viene da nasconderla ancora di più, hai paura che la gente pensi “ma che gli è successo a questo?”. Invece più la mostri, più chi ce l’ha ti vede che felicemente la mostri e magari felicemente la mostrerà a sua volta. Lo stesso vale anche per il male. Se c’è un “mal di vivere” e lo tieni solo dentro e tutta la società attorno a te lo nasconde, è ovvio che ti senti solo; meno solo se qualcuno ne parla e sei circondato di persone che si sentono come te.
Scrivendo i brani, avete dovuto confrontarvi più con il vostro male personale o con quello che collettivo e sociale?
Appino:
Io credo che siano inscindibili l’uno dall’altro. Come sempre, negli Zen c’è tanto personale che poi va a essere collettivizzato. Collettivizziamo il male!
Ufo:
Mi rendo conto in questo lasso di tempo che le due cose si fondono. Penso che il lavoro che abbiamo sempre fatto è andato sempre a virare su questa doppia realtà della persona e quella di ciò che ha attorno e farci delle domande su questo. La risposta poi è da vedere.